Capita, a volte, che l’impalcatura minuziosamente costruita giorno dopo giorno per dare senso, profondo, a questa leggera esistenza svanisca riavvolgendosi in un gomitolo bordeaux, e per un istante cado nell’infinito come in un tuffo ad occhi aperti, e poi risalgo in superficie sospinta dal controllo della razionalità, e ricordo a me stessa che questa esistenza è tanto effimera quanto passeggera e che sta a noi spiccare il volo o vivere con una zavorra attaccata ad un piede.
E’ allora che desidero viaggiare per tutta la vita, conoscere e scoprire, vedere, sentire, assaporare. Non basterebbe una vita intera, lo so, ma l’idea di arenarmi in un posto, per bello e stimolante che sia, mi da un senso di sconfitta e di insoddisfazione che quasi mi soffoca.
Il constante viaggiare, tuttavia, fisicamente o solo con la mente, stanca un poco e, sebbene saltuariamente, non mi è estraneo quel bisogno di radicamento, di costruire, di interrompere il volo pindarico della mia curiosità per tracciare un solco che resti come prova della mia esistenza.
Già, forse è solo questo che un giorno mi calmerà: non tanto la paura della mortalità, quanto il desiderio dell’immortalità, per simbolica che sia.
E’ allora che sogno ad occhi aperti di una grande sala arredata in ciliegio, un grande bancone di quelli con la vetrina in basso dove esporre grandi torte e cestini di biscotti appena sfornati, e alti sgabelli dove sedersi a bere un caffè, un the o una cioccolata calda. E di fronte al bancone un paio di tavolinetti bassi in ferro battuto con il ripiano colorato da pezzetti di ceramica incastrati a mosaico, e cinque poltrone stile liberty, qualche sedia in legno accuratamente restaurata, altre in ferro battuto, un paio in stile coloniale, una sedia a dondolo e un grande divano foderato in cotone ruvido verde, e tappeti e drappi di stoffe alle pareti e cuscini con federe di stoffe orientali impregnate di incenso a ricordo dell’antico splendore di Shiraz sulla via della seta. Cinque o sei dipinti olio su tela ingiallita distrattamente appesi : mare blu e un dhow all’orizzonte, un gatto accoccolato su una vecchia scarpa, biciclette al mercato del pesce, un volto saggio e rugoso, due sagome di donne all’orizzonte, un portone in legno intagliato.
Una grande libreria occupa un’intera parete, quella di fronte al bancone, ma i libri sono sparsi un po’ ovunque, sui tavolini, sulle sedie, nelle ceste di vimini messe qua e là. Una calde luce entra dalla finestra esposta a sudovest e illumina tutta la sala, un unico locale la cui continuità spaziale è interrotta da un paravento orientale in ferro, giunco e paglia, da una tenda in tela grezza beige ricamata in rosso e blu che scende dal soffitto, da un paio di vetrine, una con tazze di ceramica e barattoli di marmellata, un’altra con pezzi di cioccolato fondente e speziato, grezzo e prezioso come pepite, esposto per la vendita o la semplice ammirazione.
E’ la mia cioccolateria dove il cioccolato è impreziosito dalla magia delle spezie. Profumo di dolci appena sfornati, di cacao fuso, cannella e vaniglia, chiodi di garofano, zenzero e pepe nero, e un scacciapensieri tintinna quando la porta si apre.
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